Il “Ritorno” dell’isteria in pazienti in età evolutiva: interrogativi e risposte

di Giorgio Cavallari
docente di Psicosomatica, Corso SPP Età Evolutiva, Milano

Queste riflessioni partono da un fatto con il quale abbiamo avuto modo di confrontarci nel lavoro clinico e di supervisione: la comparsa di casi di isteria di conversione in soggetti in età evolutiva. Ci siamo chiesti: perché questo “ritorno”?


La storia della psicoanalisi fu particolarmente influenzata dal lavoro pionieristico di Freud (e di Breuer) con soggetti affetti da isteria di conversione: allora si trattava in prevalenza di donne giovani, appartenenti alla classe borghese medio-alta e colta, cresciute all’interno di famiglie molto condizionate da una concezione rigida, moralistica e ipercontrollante dell’esistenza, in particolare per quanto riguarda i costumi sessuali e in senso più ampio il rapporto con il corpo. Si trattava inoltre di famiglie con una forte impronta patriarcale, che assegnavano alle donne ruoli tradizionali di madri, mogli e figlie che dovevano essere interpretati in maniera rigorosa e adeguata. Nel complesso, si trattava di pazienti che vivevano in una matrice familiare e sociale dove gli “istinti”, la espressione di pulsioni sessuali e aggressive (o semplicemente auto-affermative) veniva tenuta sotto controllo da una istanza morale, il noto Super-Io della teoria psicoanalitica, estremamente presente e incisivo a livello sia intrapsichico che interpersonale.


In realtà, come Frank Summers1 ha ben illustrato in un interessante testo dal titolo “Self Creation” , dove riconsidera in una prospettiva nuova il famoso caso di Anna O.2, nella “genesi” del disturbo isterico non interveniva solo la rimozione del desiderio sessuale a causa di un eccessivo controllo del Super-Io sulla espressione delle pulsioni provenienti dall’Es: ciò che veniva “convertito” nei sintomi isterici era molto di più. Si trattava infatti della spinta motivazionale verso ciò che oggi definiamo come una sana espressione delle potenzialità affettive, intellettuali, relazionali del proprio Sé.


Citando lo studio di Hirshmuller3 sulla figura di Breuer, Summers ci ricorda come il medico passato alla storia quale collaboratore di Freud nella “scoperta” della psicogenesi dell’isteria fosse rimasto impressionato, trattando Anna O., “..da qualcosa che andava molto oltre la malattia della giovane donna. Egli ne riconobbe il potente intelletto, la eloquenza, la capacità immaginativa che era rimasta ‘non nutrita’ dai severi limiti imposti dallo stile educativo cui era stata sottoposta nella sua famiglia. Colpito dalla capacità della ragazza di parlare fluentemente cinque lingue, dalla sua memoria straordinaria per i dettagli, Breuer si accorse di essere di fronte ad un prodigioso intelletto. Notò anche qualcosa che andava oltre una considerevole intelligenza: rimase ammirato dalla tenacia, dal pensiero critico, dall’indipendenza di giudizio, dalla compassione e dalla bontà naturale della paziente..”4.


Questi particolari “talenti” umani e intellettuali si associarono, nella storia di Anna O. (che in realtà si chiamava Berta Pappeneheim) a due altri nodi che furono cruciali nella su esistenza: avere un padre particolarmente rigido, severo nel nel pretendere da Berta che incarnasse l’ideale di figlia destinata a divenire moglie e madre secondo i principi di una religiosità ebraica rigidamente tradizionalista, e l’essere nata da una mamma descritta come depressa e ipocondriaca, divenuta tale fra l’altro anche a causa della perdita di ben due figlie a causa della tubercolosi. Molto è stato detto e scritto attorno ad una sorta di “innamoramento” e di romantica idealizzazione da parte di Breuer nei confronti della giovane e brillante paziente, e su quanto tale ingombrante sentimento, comparso a sorpresa nell’austero, rigoroso e positivista medico austriaco abbia aiutato Freud ad intuire l’esistenza di quello che sarebbe divenuto, nello sviluppo del pensiero psicoanalitico, il “controtransfert”, componente fondamentale delle teoria e della tecnica psicoanalitica, concepito prima come disturbo, poi come risorsa del trattamento.


In questa sede, però, ci interessa di più seguire Summers dove ci illustra quello che fu il decorso clinico di una delle più famose pazienti “isteriche” della storia. La remissione sintomatica ottenuta da Breuer non fu stabile nella storia di Anna O. – Berta Pappenheim: dopo il trattamento infatti la giovane dovette essere ricoverata per tre mesi in una clinica, e nei successivi quattro anni fu accolta altre tre volte in casa di cura per malattie nervose. La svolta clinica ed esistenziale avvenne quando Berta, circa cinque anni dopo la fine del trattamento con Breuer, si trasferì con la madre da Vienna a Francoforte dove viveva la famiglia di origine di questa, i Goldschmits. Si trovò in un contesto umano, affettivo, culturale completamente diverso: il suo talento intellettuale, lo spirito trasgressivo e curioso che la portava a interessarsi di politica, della società, delle emergenti idee femministe non furono repressi a favore di una più auspicabile dedizione ai valori tradizionalmente “femminili”, ma incoraggiati, sostenuti e valorizzati. Berta non si limitò a leggere, a scrivere e a militare intellettualmente attorno ai fermenti dell’inizio del ventesimo secolo: concretamente si impegnò nella creazione e gestione di strutture dedicate all’accoglimento dei profughi ebrei provenienti dall’est Europa, e turbando i benpensanti si impegnò anche nella solidarietà e nel sostegno a favore di ragazze madri e adolescenti devianti. Scrive Summers, dopo una accurata revisione del materiale storico accessibile sulla storia di questa particolare “isterica”: “…non sono riportate ricadute o il ritorno di sintomi dopo il trasferimento di Anna O. a Francoforte..”5. E ancora: “..le evidenze ci portano a concludere che la ‘talking cure’ cui si sottopose la aiutò in modo considerevole, ma non sfociò nella totale e durevole remissione in cui Breuer aveva sperato e che emerge dalla lettura del caso da lui pubblicato. La guarigione della paziente non fu completa fino a cinque anni dopo la fine del trattamento. Berta riuscì a dare senso e scopo alla sua vita solo dopo che strinse i forti legami con i Goldschmids, che la aiutarono ad abbandonare la sua condiscendenza, a dare voce alle sue convinzioni, e applicare concretamente i suoi talenti..”6. “..La possibilità di esprimere e esercitare concretamente le sue potenzialità furono inseparabili dal suo evolvere verso la salute, e in un senso molto reale i Goldschmids completarono il processo terapeutico iniziato da Breuer..”7, conclude, molto puntualmente, Summers.


Pazienti come Berta divennero progressivamente sempre più rare nella storia e nella pratica psicoanalitica. La diminuzione delle forme “classiche” di isteria nel tempo, e in particolare nel secondo dopoguerra, fu messo in relazione con cambiamenti epocali che investirono tutta la società occidentale in cui gli psicoanalisti operavano, e i classici quadri nevrotici che denunciavano le problematiche inibitorie (un tempo dominanti) lasciarono progressivamente il campo a disturbi dove centrale era in particolar modo la problematica identitaria e quella di regolazione delle emozioni, degli affetti e del rapporto con gli “oggetti” sia interni che esterni.


Le relazioni in particolare, in passato così stabili da venire vissute spesso come costrittive, si fecero sempre più labili, precarie: la psicopatologia con cui i terapeuti si confrontavano diveniva sempre meno l’ansia nevrotica, e sempre di più l’instabilità, la dis-regolazione emotiva e l’impulsività comportamentale dei quadri narcisistici e borderline.


Oggi ci ritroviamo di fronte a casi di “drammatica” conversione isterica in pazienti in età evolutiva: manifestazioni gravi dal punto di vista della sintomatologia, della sofferenza imposta e dell’impatto invalidante sulla vita dei giovani soggetti. “Blocchi”, paralisi, svenimenti, deficit sensoriali, repentine crisi di “debolezza” interferiscono in modo importante con la vita familiare, sociale, scolastica dei pazienti. La moderna classificazione dei disturbi mentali (DSM V) non parla di isteria di conversione, ma li classifica come “disturbi di conversione”, e ne sottolinea la frequente relazione con fattori psicologici quali tratti temperamentali, la evenienza di eventi traumatici e la non rara correlazione con sintomi di natura dissociativa, quali depersonalizzazione, derealizzazione e amnesia psicogena.


Perché, allora, il ritorno dell’isteria di conversione? E perché in età evolutiva? Perché ci ritroviamo di fronte a “paralisi” motorie su base psicogena, o a drammatici “svenimenti” di ragazzine come accadeva a cavallo fra il diciannovesimo e il ventesimo secolo, in un contesto socio-culturale completamente diverso?


Il nodo problematico che accomuna le pazienti che furono descritte da Freud e Breuer alle ragazze dei nostri giorni è quello di una impellente, pressante necessità di espressione di vissuti psichici che non possono accedere alle forme della più “mentale” espressione verbale e che “parlano” attraverso sintomi corporei, in particolare servendosi di un corpo che si “blocca”, non si regge in piedi, sviene. Non è un caso che fra i sintomi che Breuer descrisse fra i più significativi nella giovane donna vi fosse una sorta di “balbettìo”, in una persona che invece quando stava bene parlava con proprietà diverse lingue. Vi è, allora come oggi, un bisogno di parlare, di esprimersi autenticamente, di dare voce alla propria soggettività. Anna O. aveva ventuno anni quando si ammalò, noi oggi vediamo sintomi di conversione in età infantile, pre-adolescenziale ed adolescenziale, oggi come allora prevalentemente in soggetti di sesso femminile. Allora la psiche femminile vedeva la sua espressione autentica limitata dai pregiudizi e dalle prescrizioni della cultura patriarcale, che imponeva alle donne la stretta osservanza dei ruoli tradizionali e riservava a sé gli ambiti culturali, lavorativi, sociali, dove le donne non potevano “avere pienamente voce”, e quelle che non accettavano tali limitazioni non raramente si “bloccavano” o finivano con il balbettare.


Oggi la espressione libera, soggettiva e autentica della voce femminile non è inibita da norme patriarcali ormai infrante, ma conosce altri, e non meno temibili, nemici. Da un lato vediamo la “diffusione” e la rarefazione del dialogo intersoggettivo nella società “liquida”, dove è assai facile parlare ma non altrettanto essere autenticamente ascoltati (pensiamo ai contatti che pre-adolescenti e adolescenti hanno fra loro grazie alla tecnologia informatica, contatti numerosi, intensi, frequenti ma spesso non altrettanto significativi e profondi). Da un altro lato non è rara la inibizione della libera espressione della propria “voce” a causa del frequente incontro con coetanei di sesso maschile che mettono in atto comportamenti violenti, intrusivi e non rispettosi, talvolta espressi in modo fisico ed esplicito, altre volte più striscianti, mediati ma non meno capaci di inibire la espressività autentica8. Non raramente la voce bloccata diventa sintomo fisico, e non raramente il sintomo racconta qualcosa di traumatico. Un “trauma” che riguarda il soggetto affetto dal sintomo di conversione, ma ancora di più riguarda la dimensione trans-generazionale, ciò che è accaduto ai suoi genitori e nella sua famiglia, e in senso più ampio la realtà da cui proviene. Non raramente il disturbo di conversione in età evolutiva compare in minori stranieri che hanno vissuto l’esperienza, mai facile e sempre gravata di aspetti complessi, dell’immigrazione nel nostro paese provenendo da luoghi diversi per cultura, valori e stili di vita.


La rilettura di Summers del materiale riguardante il caso di Anna O. è particolarmente interessante perché esplora, nella storia della giovane Berta, il tema del trauma trans-generazionale. Accanto alla descrizione di un padre rigido, tradizionalista e normativo vi è quella della profonda sofferenza della mamma: descritta come depressa ed ipocondriaca, lo divenne anche a seguito di eventi traumatici ben precisi: la perdita di due altre figlie a causa della tubercolosi. All’inizio del ventesimo secolo la tubercolosi aveva sulla vita e sulle famiglie un impatto psicologico, oltre che medico, devastante: non raramente ad esordio giovanile, gravemente invalidante, fonte di grave sofferenza fisica e spesso mortale, in una condizione di fatto di impotenza terapeutica (non esistevano antibiotici) la tubercolosi era una tragica realtà ed un “fantasma” terribilmente presente nella storia degli esseri umani del tempo, come molta letteratura dell’epoca bene illustrò. Quando Berta entrò in cura con Breuer, vi portò, insieme ai suoi drammatici sintomi isterici, almeno tre altre elementi. Il primo era una particolare vivacità emotiva, intellettuale ed una non trascurabile tensione verso la realizzazione del Sé, anche a costo di percorrere strade non convenzionali e trasgressive. Il secondo fu il suo rapporto inconsciamente conflittuale con i tratti coercitivi del sistema normativo e valoriale di cui il padre, e la cultura patriarcale a cui questo apparteneva, erano i portatori. Il terzo fu il violento impatto sulla sua persona e sulla sua sensibilità provocato dai traumi familiari (morte delle sorelle per tubercolosi) e dalla ipocondria e depressione della madre, inevitabilmente connessi agli stessi traumi.


La nascente “talking cure” diede voce a tale drammatico intreccio: lo fece in modo ancora tecnicamente embrionario e precario, ma nonostante le paure, le resistenze e gli errori i tre personaggi sulla scena (Berta, Freud e Breuer) fecero prevalere il coraggio, il desiderio di capire e di curare “guardando dentro” e lasciando che una voce “venisse fuori”. Non bastò da solo il lavoro di Breuer, la paziente ebbe ricadute che la lucida ricostruzione del caso ha evidenziato, ma la talking cure aprì sicuramente la strada a quelle scelte di vita che, cinque anni dopo la conclusione di quella che fu una delle prime “analisi” della storia, diedero una svolta clinicamente e umanamente decisiva ed evolutiva alla vita di Berta.


Dopo un secolo, una sfida analoga si ripropone a chi cura, con la parola e con il gioco terapeutico, che in fondo è un altro modo di “dare voce” alla psiche e all’intenzionalità, e di permettere che il messaggio nascosto nel disturbo di conversione venga colto.


1 – Summers F.: Self Creation, The Analytic Press, New York 2005
2 – Freud S.: Studi sull’isteria, in Opere vol. 1, Boringhieri, Torino 1967
3 – Hirshmuller A.: The life and the work of Josef Breuer, New York University Press, New York 1989
4 – Summers, cit.
5 – Summers, cit.
6 – ibidem
7 – ibidem
8 – Silber L.M.: Adolescent Girls and the Transgenerational Relational Catch, in Journal of Infant, Child,
     and Adolescent Psychotherapy, 11:121–132, 2012