LA CONSULTAZIONE 0-5 GENITORI-BAMBINO
Dott.ssa Laura Magnini
Il mio incontro con la consultazione “Under five” secondo il modello della Tavistock Clinic risale al
1996, quando, presso il Centro Benedetta D’Intino, è stato attivato questo servizio con le
supervisioni delle Dott.sse Roberta Mondadori, Maria Pozzi, Emanuela Quagliata, e l’apporto della
dott.ssa Lisa Miller. Ero rimasta molto colpita dalla possibilità di coniugare la tecnica psicoanalitica
ad un intervento molto flessibile e breve. Mi aveva entusiasmato questo intervento precoce, di
primo livello, che offre la possibilità di prevenire un irrigidimento delle difese e un primo
strutturarsi di un funzionamento familiare disfunzionale, in un momento relazionale del nucleo
ancora tanto plastico e passibile di trasformazioni e che permette, quindi, di rimettere in moto un
funzionamento genitoriale “sufficientemente buono” che sembra essersi “inceppato”. Infatti, i
genitori, freschi di questa recente intensa esperienza e, proprio per questo, profondamente in
contatto con la propria infanzia e con le proprie figure genitoriali, si trovano ad affrontare una
necessaria rinegoziazione del proprio ruolo che li rende più disponibili al mettersi in discussione.
Così come i loro bambini appena affacciati alla vita, possono essere accompagnati a rimodulare
attese e richieste.
Vorrei proseguire questo mio contributo sulla Consultazione 0/5 con una seduta che ci permetta di
entrare subito nel clima emotivo di questo intervento.
Il signor P. telefona per una Consultazione 0-5 anni perché Mattia di 3 anni e mezzo trattiene le
feci. Saprò nel primo incontro che questo avviene da quando il bambino ha cominciato a
frequentare la scuola materna. Il padre ha due figli già grandi, da un precedente matrimonio;
rimasto vedovo con i figli ancora molto piccoli si è risposato e soltanto quando i ragazzi sono
adolescenti nasce Mattia.
Terzo incontro
La famiglia del signor P. arriva all’ appuntamento con circa cinque minuti di ritardo, Mattia è
addormentato in braccio alla mamma. Entriamo nella stanza, la signora si siede con Mattia in braccio
che continua a dormire “spalmato” sul suo corpo. Il padre cerca di svegliare il bambino, che non
vuole aprire gli occhi e fa come se dormisse. A quel punto io dico di come sia difficile per Mattia
lasciare la mamma come avviene per andare alla scuola materna; è così piacevole stare fra le sue
braccia, così in contatto come se non esistesse altro. Il padre prima cerca di stuzzicarlo ma ottenendo
solo una protesta stizzita si alza, un po’ irritato va a sedersi al tavolino; prende uno dei fogli preparati
per Mattia, i pennarelli e comincia a disegnare. Nella stanza scende il silenzio, io seguo lo svilupparsi
del disegno e anche il bambino che da sotto le palpebre abbassate lancia occhiate al padre. Il signor
P. inizia a disegnare un’isola, poi il mare, il sole e dei gabbiani in cielo. Commento che sembra che
papà stia pensando ad un’isola, una vacanza al caldo (è inverno) forse per sé e per la mamma. Il
signor P. sorride, sembra soddisfatto della sintonizzazione avvenuta. Mattia scende di colpo e in gran
fretta dal grembo materno e va a sedersi all’ altro capo del tavolino, di fronte al padre e inizia a
disegnare. Osservo che pare che quest’idea abbia fatto svegliare il bimbo; gli chiedo cosa stia
disegnando, egli mi risponde: Un’aquila”. Io aggiungo che se papà disegna gabbiani… Mattia
prosegue: “Un’aquila che porta via Heidi”. Evidenzio che sembra proprio reclamare per sé la mamma
Heidi. I genitori sono molto colpiti da questa aperta sfida del loro bambino.
Il padre sottolinea come il bambino occupi la maggior parte del tempo e delle attenzioni della
moglie; di quanto poco spazio ci sia per la loro intimità di coppia (emerge che M. dorme in camera
con loro). La moglie, a quel punto, inizia a parlare del suo essere stata madre di due bambini non
suoi, di quanto nel loro piccolo centro si era sentita soppesata come madre, in special modo dai
genitori della prima moglie. Conseguentemente era nato in lei il pensiero: “Se un giorno avrò unfiglio mio nessuno mi potrà dire come fare, sarà mio”. Questo ci permette di riflettere su come
questo abbia reso il rapporto con Mattia esclusivo ed escludente.
La Consultazione 0-5 permette di raggiungere più famiglie anche per la brevità dell’intervento che
muove minori timori di dipendenza negli adulti; inoltre introduce le famiglie alla possibilità e
pensabilità di concepire degli interventi a più riprese, usufruibili nei periodi di difficoltà, durante la
crescita e lo sviluppo dei bambini e della famiglia.
Scrive Margaret Rustin: “Moltissime famiglie vengono aiutate, in momenti di crisi, da interventi
brevi, che possono ridurre l’ansia e sbloccare il potenziale di sviluppo nei bambini e nei genitori e
aprire quella relazione. Problemi più seri sono, a volte, evidenziati, per cui input più sostanziali e a
lungo termine sono necessari e possono essere messi in atto prima che le cose si blocchino
troppo”.
Continuo ad essere colpita ed emozionata ogni volta che osservo quanto, anche un’unica seduta,
possa permettere un’importante esplorazione dei propri vissuti e dare l’avvio ad una
trasformazione; di come il poter fare l’esperienza di una mente che contiene accogliendo la
sofferenza personale permette movimenti trasformativi. Lisa Miller ci ricorda che: “Quando si
sente considerata, la madre può iniziare a dedicarsi al bambino i cui bisogni non vengono più
sentiti in competizione con quelli delle parti infantili di sé. (…). Una parte infantile e bisognosa
della madre si risveglia in identificazioni con il proprio bambino. Questa parte si sente
abbandonata e perduta, preda di angosce primitive di cadere a pezzi. Il lato adulto della
personalità viene sopraffatto e si dissolve. (…) Il miglior antidoto a ciò è la riattivazione, dove
possibile, della funzione di coppia genitoriale, tra madre e terapeuta (… ); una funzione in cui le
angosce infantili, irrazionali e primitive possano essere tollerate e dove il processo di pensiero
possa ripartire”.
Caterina è una giovane donna che telefona dicendo di essere in difficoltà con la sua bimba di pochi
mesi, ma il suo tono al telefono non sembra particolarmente preoccupato; le do un appuntamento
dopo pochi giorni invitandola a venire, se lo desidera, anche con il compagno e la bambina. Viene
all’appuntamento da sola, dice che il compagno lavora e che ha lasciato per la prima volta Sofia, di
tre mesi e mezzo, alla propria madre perché voleva uno spazio tutto per sé. Non ha bisogno di
sollecitazioni per iniziare a parlare. Racconta che sente il compagno assente, che lui ha dei
problemi alla schiena e non prende in braccio la piccola, sente che non si occupa della bambina e
che è tutto sulle sue spalle e questo le pesa moltissimo e la fa sentire sola di fronte a questa nuova
responsabilità. Le chiedo della gravidanza e del parto. Mi dice che ha desiderato molto questo
figlio, cosa che non avrebbe mai pensato, fino a pochi anni prima. Mi parla di un travaglio molto
lungo (24h) del rischio di un cesareo e poi della nascita della piccola: “Non è andata come mi ero
immaginata”. Caterina, da alcuni anni, vive con il compagno in una capitale europea, mentre la sua
famiglia vive a Milano. Mi dice ora che sono in Italia da due mesi e che è molto preoccupata
all’idea di ripartire. Ha cominciato a sentire il peso della situazione circa 15 giorni prima quando
sono rimasti loro tre soli nella casa al mare; lì ha pensato di fare una scorta di latte artificiale e di
partire, lasciarli per sei mesi. Dice che la bambina è brava, dorme la notte e gli altri le dicono che è
fortunata e questo la fa sentire sbagliata, perché lei è molto stanca ma si sente in colpa se la lascia
anche solo per un’ora. L’allatta al seno e la definisce: “Un’adorabile sanguisuga”. Le chiedo come sia
andato il primo mese a casa, mi risponde: “Bene, praticamente ero sempre a letto; ero molto
debilitata”. Sono molto intenerita e anche preoccupata per questa giovane donna che mostra i
segni di una depressione post partum e chiede aiuto. Continua il suo racconto dicendomi che sua
madre le ha detto che con lei è stato facile, lei era una bambina che dormiva e la sua mamma non
ha mai perso una notte avendo preso da subito una puericultrice che si occupava di lei. Continua
dicendo che ha sempre sentito sua madre lontana e non vuole fare con Sofia quello che la madre
ha fatto con lei. Riflettiamo insieme sulle cure a questa bimba e sulle cure non avute da Caterinabambina; per quale bambina sono queste cure? Via via che le parole escono la giovane donna
inizia a sorridere e i lineamenti a distendersi. Caterina va via più sollevata. Vedrò Caterina altre due
volte, soffermandoci sui temi dell’idealità e sul suo desiderio di essere una madre diversa dalla
propria madre ma anche sulla paura della propria parte richiestiva proiettata su Sofia (la bambina
sanguisuga). Direi che Caterina è un buon esempio di genitorialità in trasformazione, in grado di
chiedere ed utilizzare l’aiuto offerto, mettendo a fuoco aspetti significativi della propria infanzia.
ORIGINI E TEORIA
Vorrei ora ripercorrere la storia e lo sviluppo, forse per qualcuno di voi già noto, del Servizio 0/5.
Marta Harris, psicoanalista infantile e grande fautrice della formazione degli psicoterapeuti infantili
attraverso l’infant observation, utilizzò le competenze che le derivavano dall’osservazione del
neonato per offrire alle famiglie con bambini piccoli le “consultazioni terapeutiche”(Harris,1966)
In America Selma Fraiberg, nella seconda metà degli anni settanta propose un intervento con
famiglie con bambini sotto i cinque anni. Certamente con modalità diverse dal successivo modello
0-5: gli interventi erano domiciliari e più lunghi nel tempo; aprendo però la strada, anche
attraverso l’articolo intitolato “I fantasmi nella stanza dei bambini” ad una più attenta
comprensione delle dinamiche proiettive e transgenerazionali tra genitori e figli. Fraiberg, in
questo scritto, pilastro per il lavoro con le famiglie, ci illustra come i fantasmi del passato dei
genitori, possano transitare nella stanza dei bambini, con difficoltà più o meno gravi, in relazione
alla loro invasività e tossicità. Lutti inelaborati, maltrattamenti e/o traumi subiti, aborti precedenti
al bambino nato, questi sono alcuni dei fantasmi che possono “impegnare” le famiglie. Sarà nel
decennio successivo che presso la Tavistock Clinic nascerà il Servizio “Under Five”: per rispondere
rapidamente e con flessibilità ai bisogni dei genitori intenti a sostenere la crescita e lo sviluppo dei
loro bambini e a confrontarsi con il proprio mondo interno fortemente sollecitato.
Mi viene da pensare che vent’anni di formazione attraverso l’Infant Observation siano stati
determinanti alla creazione di questo modello di intervento così innovativo e creativo. Credo,
infatti, che proprio una formazione che punta alla costruzione di un setting mentale stabile e
contenitivo, permetta di sperimentare, successivamente, una naturalità nella relazione pur nella
ritualità del setting. Inoltre, quell’attenzione sperimentata nell’esperienza osservativa, ha permesso
di far nascere un modo diverso di approcciare le difficoltà delle neonate famiglie, partendo da
quell’osservazione partecipe che poi si coniuga con rappresentazioni mentali capaci di avvicinare le
loro difficoltà. A questo proposito, Magda Viola nel suo articolo “Alla scienza conviene la creatività”
afferma: “(…) è necessario che anche l’osservatore abbia un assetto mentale capace non soltanto
di accogliere le emozioni ma di farsene rappresentazioni e pensieri (…) A un assetto mentale
scientificamente connotato dalle caratteristiche proprie della psicoanalisi e dal suo metodo di
indagine sugli eventi mentali, è necessaria molta creatività.”
A mio parere, l’assetto mentale scientificamente connotato corrisponde al setting mentale e la
creatività corrisponde alla capacità di accogliere e sintonizzarsi.
Ed è proprio l’osservazione del neonato insieme alla teoria bioniana che sono alla base della
Consultazione 0/5.
L’esperienza di osservazione del neonato favorisce il costituirsi di un assetto mentale psicoanalitico
necessario al lavoro clinico.
Con l’osservazione del neonato si affinano le competenze all’ascolto, grazie all’impegnativa
esperienza dell’astinenza partecipe e alla visione binoculare: capacità di identificarsi con le diverse
persone presenti all’esperienza osservativa, rimanendo in contatto con parti diverse della propria
personalità. Nell’oscillazione osservare-osservarsi si affina la capacità di identificarsi con ruoli
diversi nell’interazione e nella percezione umana (Meltzer 1982). Inoltre, nel corsodell’osservazione, impariamo a riconoscere e a tollerare le angosce infantili e a non sottovalutarle
o negarle. Ciò ci permette di sviluppare la capacità contenitiva e di reverie (Bion, 1962) che a loro
volta daranno il via alla trasformazione del “contenuto”. Fondamentale, inoltre è l’identificazione
proiettiva, intesa, secondo il modello bioniano, come una modalità comunicativa del paziente che
permette al terapeuta di entrare in contatto con ciò che i membri della famiglia vogliono fargli
provare.
Credo non sia difficile pensare a quali emozioni sia esposto il terapeuta che si occupa di questo
tipo di consultazione, che richiede di tollerare intense emozioni, alcune solamente evacuate, e di
essere in grado di identificazioni multiple. L’assetto mentale deve essere quindi strutturato, così da
permettere di contenere le proiezioni e le angosce di un intero nucleo familiare. Essendo pochi
incontri, l’intervento chiede ai terapeuti di essere maggiormente attivi, curiosi (non intrusivi),
capaci di aprire ad ulteriori significati anziché chiudere con interpretazioni precoci. É necessario
fidarsi del proprio controtransfert, pronti ad accogliere gli elementi transferali tenendoli a mente e
dare, invece, spazio alla lettura dei transfert tra i membri della famiglia, aiutandoli a costruire in
alcuni casi o dar senso in altri, alla narrazione familiare.
COSA OFFRIAMO E A CHI
La Consultazione 0/5 anni si rivolge a quei genitori che desiderano parlare delle loro
preoccupazioni con una persona esperta. Si cerca di rispondere in tempi rapidi e con flessibilità ai
loro bisogni, la loro attenzione può essere focalizzata su alcuni segnali di disagio che possono
partire dà: difficoltà della gravidanza, pianto inconsolabile del neonato, disturbi del sonno,
problemi alimentari, del controllo sfinterico, problemi di separazione, comportamenti oppositivi,
rabbie e tutte quelle situazioni in cui i genitori si sentono in palese difficoltà. Vengono offerte fino a
cinque sedute, eventualmente ripetibili, più una di follow up dopo alcuni mesi. Gli incontri di
un’ora/un’ora e un quarto ciascuno, sono offerti a tutta la famiglia, accogliendo, proprio per la
flessibilità del metodo, chi si presenterà all’appuntamento. Per lo stesso motivo, personalmente,
scelgo di stabilire di volta in volta l’incontro successivo, che potrà essere a cadenza settimanale o
distribuito su un arco di tempo più lungo, assecondando la necessità e la disponibilità del nucleo
familiare. Viene offerto un setting che si avvicina molto al setting osservativo. Uno spazio fisico che
tenga conto delle esigenze e della simultaneità di adulti e bambini e quindi una sorta di circolo
ideale che comprenda il tavolino con le seggioline e i giochi e/o un’area “morbida” e le sedie per gli
adulti. Già dallo spazio fisico possiamo cogliere come il terapeuta si trovi “immerso” nel clima
familiare, snodo e catalizzatore delle difficoltà e del cambiamento. La consultazione risulta uno
spazio per la famiglia che consente di mettere in scena le necessità, i nodi problematici e le
dinamiche disfunzionali. Un contenitore che aiuta i genitori a narrare di loro e dei loro bambini;
che consente di esprimere i propri sentimenti, di riflettere sulle proprie azioni, di esplorare le
emozioni personali e di distinguerle da quelle dei bambini e di riconoscere che i piccoli ne abbiano
di proprie. Ed è proprio attraverso i nostri stimoli a ripercorrere e ricostruire la prospettiva
soggettiva dello sviluppo del bambino e del passato dei genitori che permettiamo di far emergere
una narrazione più organica della storia stessa, fattore molto importante, come ci ricorda Peter
Fonagy (Fonagy 2002). Un lavoro emotivo importante e significativo che dà la possibilità di
modificare le proprie rappresentazioni. Altresì un ambito in cui il bambino si senta riconosciuto
nella propria individualità, legittimato a smarcarsi dalle proiezioni genitoriali, in grado di rimettere
in moto le proprie competenze.
BAMBINI E GENITORI: INSIEME O SEPARATI?
Una domanda che viene spontanea è sicuramente: “Perché tutti insieme? Non sarà pericolosa per ibambini questa esposizione ai vissuti dei genitori?”
Innanzitutto, dobbiamo tenere a mente che quello di cui trattiamo con tutta la famiglia è ciò in cui i
bambini sono immersi quotidianamente. Vorrei ricordare inoltre che, non esplicitando lasciamo,
invece, i bambini soli con le loro paure, le loro fantasie spaventose; spesso bloccati a custodire i
segreti dei grandi. Ci ricorda Tonia Cancrini, nel suo libro “Un tempo per l’amore”: “E ove il trauma
riguardi il passato è fondamentale la presenza di un altro per ripercorrere insieme il percorso
evolutivo e di reverie materna, assenti nel momento del trauma, permettendo di riconoscere e
rivivere le emozioni insieme, riandando lì dove il percorso in comune con l’altro è stato mancante.
È importante la possibilità di rivivere insieme e ricordare. Senza memoria non si può elaborare.
Non si tratta ovviamente di una memoria di fatti, ma di emozioni…” Anche per questo ritengo sia
così importante la consultazione 0-5 in cui sono presenti tutti i membri del nucleo familiare e non
genitori e bambini separati; solo così abbiamo la possibilità di mettere/rimettere in circolo quelle
comunicazioni emotive bloccate, mai potute esprimere. Lo vediamo sempre, quando i bambini, in
seduta pur giocando, colgono un’emozione più difficile da esprimere o particolarmente dolorosa
per il proprio genitore e si attivano per consolarlo o per distrarlo (chiedere di andare in bagno,
voler andare a casa, fare giochi molto rumorosi) e quanto sia utile ai genitori poter vedere in
“presa diretta” come si attiva il figlio a seguito di questa loro comunicazione. Inoltre, i bambini,
frequentemente, fanno da apripista, prendono per mano i loro genitori e, con una sorta di
inversione di ruolo, segnalano che l’esplorazione di quei vissuti è possibile, anzi utile. “Un dolore
condiviso è un dolore a cui è stato tolto il veleno” (Wittemberg in Cancrini, cit.).
Durante la quarta seduta di consultazione 0-5, mentre Marta, cinque anni e mezzo, disegna,
mamma e papà raccontano dell’attaccamento eccessivo di Marta nei confronti della mamma che la
porta anche ad arrabbiarsi molto con lei. A questo punto Marta interviene per dire che lei ha molta
paura di vedere il film di Heidi, non vuole proprio vederlo. Le chiedo che cosa del film le faccia
paura e lei mi dice: “Quando Peter butta giù la sedia a rotelle di Clara”. Io commento che vederlo
così arrabbiato la spaventa molto. Marta aggiunge che aveva paura ci fosse sopra Clara. Dico che
sembra spaventarla molto questa espressione di rabbia che sembra pericolosa e incontenibile. La
bimba annuisce e aggiunge che le fa anche molta paura la Signorina Rottermeier. La mamma qui
interviene e dice: “Questo è per me. Le mie amiche mi chiamano Signorina Rottermeier”. Da qui
passiamo a parlare della sua severità: lei è molto disponibile con le bambine, avendo avuto dei
genitori che non vedeva mai per via del lavoro, ma, per contro, si aspetta molto da loro ed è
severa. Lei è stata una bambina molto buona e non riesce a concepire che alla sua disponibilità
Marta risponda con questi episodi tirannici.
IL TERAPEUTA: TRA SCILLA E CARIDDI
Per parlare di noi, del nostro ruolo in questa affascinante e complicata navigazione che ci coinvolge
e ci chiede di non perdere il contatto con le nostre storie personali, riporterò le parole di Wilfred
Bion che donandoci questo suo drammatico ricordo ci fa strada.
“(…) Eppure, ora mi sentivo come non mi ero mai sentito prima: ottuso e insensibile. Che ci fosse
qualcosa che non andava (…), mi apparve chiaro in un week-end mentre me ne stavo seduto sul
prato di casa e la bambina camminava a quattro zampe vicino a un’aiola dalla parte opposta del
prato. Cominciò a chiamarmi; voleva che andassi da lei. Restai seduto. Lei cominciò a strisciare
verso di me. Ma mi chiamava come se volesse che andassi a prenderla in braccio. Restai seduto. Lei
cominciò a strisciare e a chiamarmi, ma ora con un tono di infelicità. Restai seduto. La osservai
proseguire nel suo faticoso percorso attraverso la distesa sconfinata, o che tale doveva sembrarle,
che la separava dal suo papà. Restai seduto ma mi sentivo amareggiato, arrabbiato, rancoroso.
Perché mi stava facendo questo? E, quasi impercettibilmente, la domanda, “Perché le stai facendo
questo?”. La balia non riuscì a resistere, e si alzò per prenderla in braccio. “No”, le dissi io, “la lascistrisciare. Non può farle alcun male”. Guardammo la piccola che strisciava a fatica. Ora piangeva
disperatamente, ma insisteva con caparbietà nel suo sforzo di coprire la distanza che la separava da
me. Mi sentivo stretto in una morsa. (…) Alla fine, la balia (…) si alzò (…) e la prese in braccio.
L’incantesimo si spezzò. Fui liberato. La bambina aveva smesso di piangere per essere consolata da
braccia materne. Ma io, avevo perso mia figlia. Spero non ci sia una vita futura. Avevo supplicato
Betty di acconsentire ad avere un figlio; il suo consenso le era costato la vita.”
Questo intenso e doloroso ricordo di vita ci permette di riflettere sul nostro ruolo e di accostarci al
tema della “benevolenza”; ognuno di noi porta nel lavoro terapeutico i suoi nodi dolenti anche se
ben analizzati. Bion parla della propria genitorialità caratterizzata da un grande dolore, di cui
diventa consapevole e che diventa in grado di contenere. Ho scelto questo racconto così
drammatico perché mi sembra che Bion ci dia l’opportunità di comprendere che non viene
richiesto a noi terapeuti di essere perfetti ma di essere consapevoli dei nostri nodi dolenti e di
restarci in contatto. Certamente l’osservazione del neonato ci ha aiutato a comprendere il valore
dell’astenersi dal giudizio, ma è fondamentale, a mio parere, per accostarsi ai genitori e ai bambini,
aver fatto pace e continuare a fare pace con la propria storia di figlio, di genitore e con i propri
genitori reali e interni. Solamente un continuo lavoro di pacificazione ci permette di accogliere i
vissuti dei genitori e, senza “scandalizzarci”, di accompagnarli nell’elaborazione di essi: sostando
con loro nel dolore psichico, sostenendo la forza emotiva di affrontare le loro storie e le loro verità.
Nel concludere il mio pensiero va alle numerose colleghe con cui, nell’ambito delle supervisioni, ho
“risognato” le storie familiari incontrate, condividendo pensieri ed emozioni che ci hanno
permesso ulteriori passaggi di comprensione relativi alla complessità e alla dolorosità delle vicende
familiari a cui ci avviciniamo, del rispetto necessario per accostarsi ad esse e alla ricchezza di
questo intervento. A loro e alle famiglie incontrate va il mio pensiero affettuoso ed il mio grazie.
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