La “voce” del corpo. Riflessioni su un caso di somatizzazioni multiple

di Serena Vailati

Il tema del “dar voce” al corpo, e alla peculiarità del suo linguaggio, fa da sfondo all’incontro con una ragazzina di 11 anni che chiamerò Erica. Erica frequenta la prima classe della scuola media, viene presentata dai genitori come una bambina da sempre determinata, che vuole avere ogni volta l’ultima parola su tutto; durante le elementari non ha mai manifestato particolare disagio a scuola e non vengono riportati episodi particolari in occasione degli inserimenti, le insegnanti la descrivevano solamente come timida e difficile da coinvolgere durante le lezioni. Il suo temperamento più richiedente e aggressivo si manifestava però a casa, dove a volte appariva irascibile, in particolare nel rapporto con la madre.

L’inizio delle medie è stato vissuto bene e con impegno nello studio, solo dopo le vacanze di Natale Erica ha iniziato a manifestare i primi sintomi. I genitori infatti raccontano di come la ragazzina abbia incominciato a lamentare mal di stomaco molto spesso. Una domenica sera non ha sentito più la forza, neanche nelle braccia, per poter almeno terminare la cena: una sorta di crisi di astenia acuta e diffusa. Si sono ripetuti quindi alcuni accessi al pronto soccorso in più occasioni per dolori al torace e tachicardia, e infine si è giunti a un ricovero di circa 10 giorni a causa di dolori addominali, vomito e ipotonia muscolare. Solo dopo aver escluso cause organiche è stata visitata anche dalla neuropsichiatra infantile con riscontro di un quadro di somatizzazione multiple. E’ iniziato così un periodo di grande preoccupazione all’interno di questo nucleo familiare. Erica non ha frequentato la scuola per un paio di mesi poiché si verificavano episodi di “perdita di forze” che le rendevano impossibile muoversi. A questi sintomi si è aggiunto il vomito in particolare alla mattina prima di andare a scuola. Sono stati riferiti anche svenimenti di pochi secondi, la loro frequenza cresceva a dismisura arrivando anche a 20/30 volte al giorno. I genitori hanno raccontato durante la consultazione episodi particolarmente toccanti da cui traspariva la gravità della situazione e le forti emozioni che circolavano in famiglia, con angoscia e smarrimento per ciò che accadeva “al corpo” e “nel corpo” della figlia. Hanno riportato infatti momenti in cui Erica perdeva le forze e si accasciava a terra magari mentre stava scendendo dalla macchina di fronte a scuola, oppure episodi di “perdita di forza” nei corridoi della scuola dove addirittura finiva con il muoversi letteralmente strisciando a terra, come una persona incapace di mantenere la statura eretta e deambulare autonomamente. Gli aspetti invalidanti della sintomatologia sono stati a un certo punto di tale rilievo che Erica è stata costretta a provare ad andare a scuola in sedia a rotelle. Dopo essere riuscita ad entrare in classe per la prima volta dopo un paio di mesi, è ritornata però a frequentare la scuola prima in modo non costante, poi con maggiore regolarità.

Di fronte a questa sintomatologia così “esplosiva”, drammatica e invalidante (pensiamo alla necessità della sedia a rotelle e alla lunga assenza dalle lezioni) non si può non pensare all’emergenza di un potente messaggio di disagio intrapsichico e relazionale che “salta” di colpo l’uso della normale verbalizzazione, per parlare con “parole somatiche” rappresentate dai sintomi di improvvisa gravità. L’indagine medica non ha trovato cause organiche clinicamente significative, la mente aveva semplicemente “convertito” nel corpo, come nelle pazienti isteriche di Freud e di Breuer, l’ansia, i conflitti, le problematiche di sviluppo e relazionali di una particolare fase della vita, la pre-adolescenza.

Nel caso di Erica ben si evidenzia come la fondamentale motivazione umana a narrare, a interrogare gli altri, a chiamarli in causa, a farli divenire soggetti di dialogo e anche di conflitto con il proprio Sé abbia inconsciamente scelto la via espressiva mediata dal corpo. Una dimensione somatica che ha prevalso, che si è imposta attraverso sintomi drammatici, facendosi portatrice di messaggi che la ragazza non riusciva a descrivere ed esternare con le parole. La drammatizzazione, la condensazione, la simbolizzazione spesso “spietate” nel dire la verità sul disagio, sul conflitto, su ciò che genera angoscia, già descritte dalla tradizione psicoanalitica nel linguaggio onirico si ripresentano, in modo altrettanto impressivo, nel messaggio del sintomo. Il corpo di Erica perdeva forza, si accasciava, strisciava al suolo di fronte al compito di affrontare la vita, lo sviluppo, la autonomia, la crescita, con l’inevitabile ansia che tali processi implicano, nonostante il suo apparato motorio fosse anatomicamente integro. Il suo apparato digerente, a sua volta esente da patologie “organiche”, invece di funzionare fisiologicamente mostrava sintomi quali nausea, vomito, dolori addominali, così rilevanti da imporre visite al pronto soccorso e ricoveri.

Erica mi ha fatto capire, nel confronto terapeutico con lei, cosa si debba intendere per “parlare attraverso sintomi corporei” e come il tema del “dar voce” sia importante, specie se collegato al bisogno di esprimersi di una ragazza nell’età della preadolescenza. Mai come in questo momento evolutivo i ragazzi sono alla ricerca della propria identità e spesso è per loro faticoso tenere insieme, oltretutto in un corpo che cambia, le emozioni ambivalenti che li spingono verso la crescita ma che allo stesso tempo li riportano, a tratti, ancora verso il mondo infantile tanto rassicurante. La fatica nel percorso verso l’autonomia di Erica non viene raccontato tramite le parole, ma tramite il corpo. Quali erano i messaggi quindi che Erica stava comunicando?

La prima cosa che ho notato è stata la difficoltà nell’entrare in relazione con Erica tramite le parole, nonostante si trattasse di una ragazza ben dotata intellettualmente. Le mie domande ottenevano risposte “asciutte”, descrittive più che esplicative, ed era difficile coinvolgerla anche solo per parlare dei suoi interessi. Il canale comunicativo della parola risultava fin dai primi istanti poco efficace, con facile caduta nel banale, nello scontato, in espressioni troppo sintetiche e povere di risonanza emotiva.

Quanto dico l’ho potuto sperimentare anche con altri bambini o ragazzi che venivano in consultazione per sintomi psicosomatici: di fronte a questa sintomatologia bisogna trovare strade alternative per entrare in relazione con loro. Mi sono chiesta in più occasioni dove ricercare la origine di questa voce “bloccata” che si rifletteva in un corpo a sua volta bloccato. Cosa Erica non si poteva permettere di dire? Pensando alla storia di questa paziente mi sono apparsi allora rilevanti alcuni elementi, su cui mi soffermerò brevemente.

Il corpo della ragazza innanzitutto “parlava” di un momento evolutivo di maturazione sessuale in cui forse l’attivazione di emozioni erotiche poteva spaventare. Ritorna quindi il tema dell’emergere e del controllo delle pulsioni sessuali di cui si è parlato molto nella storia della psicoanalisi, e su cui può essere prezioso riportare l’attenzione: in un contesto dove la pratica della psicoterapia psicoanalitica è profondamente influenzata dal paradigma relazionale e intersoggettivo il “ritorno” di manifestazioni riconducibili all’isteria di conversione ci porta a riflettere sul fatto che la vita psichica affonda le sue radici e trae vita non da una, ma da due dimensioni esperienziali. La prima è rappresentata dall’incontro con un “Altro” che è il mondo delle relazioni che stanno attorno al soggetto, a partire da quella di attaccamento con la madre; la seconda è un “Altro” diverso, ma non meno importante, che si connette al mondo degli istinti che stanno “dentro” al soggetto, in primo luogo nel suo corpo che si muove e si trasforma, dando vita a desideri, a curiosità ma anche a inevitabili paure e disarmonie. Il “profondo” non è fatto solo di fantasie, di immagini e di ricordi, ma anche di pulsioni e di istinti connessi alla fisiologia del corpo.

Erica doveva, nel periodo in cui sono emersi i sintomi, confrontarsi anche con la necessità di riuscire a controllare le pulsioni aggressive stimolate dal rapporto conflittuale con la madre, in difficoltà a contenere le emozioni della figlia, a dare loro voce e forse, ancora prima, “semplicemente” ascoltarle senza averne eccessiva paura. Per Erica, e per la mamma, il periodo in cui sono comparsi i sintomi rappresentava anche il “momento esistenziale” critico in cui confrontarsi anche con l’altra grande (ed estremamente ambivalente!) forza (o pulsione!) che si muove dentro gli esseri umani: la aggressività, sempre impregnata della sua potenzialità affermativa e assertiva come di quella distruttiva.

Pulsioni libidiche e pulsioni aggressive, nel crogiuolo di esperienze, di paure, di maturazione affettiva e cognitiva della pre-adolescenza possono avere destini diversi: non raramente possono dare luogo a vissuti di ansia che prendono due strade, fra loro connesse ed entrambe comparse in Erica: la conversione somatica e la regressione ad una posizione più dipendente.

Di fronte a espressioni emotive più intense la madre si ritirava, delegava la gestione del problema al padre pur continuando a mostrare dissenso e rabbia verso una figlia che non stava rigidamente alle sue regole. Erica diceva: “Non mi sento capita dalla mamma”.

Il padre invece appariva agli occhi della figlia come l’unico in grado di comprenderla, a cui confidare i propri segreti e in cui riporre fiducia. Il forte legame con il padre ci invita a riflettere sul fatto che, nella fase della vita in cui sono emersi i sintomi, Erica stesse confrontandosi anche con l’attivazione di fantasie e desideri connessi alla dimensione edipica, ed al confronto inevitabile (e inquietante) con il possesso di un corpo ad un tempo potenziale soggetto e oggetto di desiderio sessuale.

Forse tutte queste componenti hanno portato Erica a compiere inconsciamente un movimento regressivo che l’ha costretta a casa, dove si sentiva al sicuro di fronte a questi nuovi stimoli. Stare a casa diventava anche un modo per poter accedere in modo più significativo ad una relazione duale ed esclusiva con il padre, che proprio nello stesso periodo è stato costretto a rimanere a casa in quanto collocato in cassa integrazione. I sintomi di conversione, pur a caro prezzo, le hanno consentito di regredire ad una condizione più infantile di dipendenza e bisogno, e allo stesso tempo di poter godere di un rapporto più esclusivo con il padre, e tutto questo con lo scudo, “incolpevole” ai propri e altrui occhi, di sintomi fisici. Mi sono chiesta se forse la voce che cercava espressione era anche quella di una ragazzina preoccupata per quanto le stava capitando, non solo nel suo corpo, ma anche fuori, nel suo nucleo famigliare. Suo padre non andava più al lavoro, la tensione in famiglia cresceva ma Erica non veniva coinvolta, non le veniva spiegato cosa stava succedendo e per quali motivi. Forse gli stessi genitori facevano fatica a vedere Erica non più come una bambina ma come un ragazzina che andava accompagnata nella comprensione di ciò che la circonda.

In casi come quello che abbiamo descritto, e nelle loro famiglie, trattandosi di soggetti in età evolutiva, si costella una critica carenza di “rappresentazione” psichica di situazioni potenzialmente ansiogene. Erica cresce, vive il confronto con una emergente pulsionalità sessuale, orientata edipicamente verso il padre e verso coetanei dell’altro sesso. Vive una pulsionalità aggressiva in particolare verso la madre, legata a spinte verso l’autonomia tipiche della pre-adolescenza. Teme (e inconsciamente anche desidera) di fare male agli altri, teme (e allo stresso tempo desidera) di staccarsi dalla dipendenza infantile ed andare per la sua strada. La famiglia contemporaneamente vive la vicenda della cassa integrazione del padre, con le inevitabili ansie economiche e di ruolo sociale che l’accompagnano.

Di tutto questo si fa fatica a “parlare”, sia in un dialogo intrapsichico con se stessi, sia fra i diversi membri della famiglia, in particolare con una figlia che non è ancora adulta ma non è più bambina. L’ansia cresce, non viene raccontata e rappresentata, si esprime allora in sintomi che trasformano la dimensione familiare e la scuola (i due contesti relazionali abitati da Erica) nel teatro dove va in scena un dramma, dove la sofferenza psichica si converte brutalmente nel corpo: la paziente ora perde le forze, ora sviene, ora si accascia al suolo mentre scende dall’auto davanti alla scuola, e poi “striscia” invece di camminare normalmente per i corridoi dello stesso Istituto, si deve addirittura prendere in considerazione la sedia a rotelle, presidio riservato ai gravi invalidi.

L’allarme viene finalmente recepito, l’ansia innesca l’intervento della scienza medica, che non trova “nulla” di organico. Ciò apre le porte all’intervento psicologico: la perdita di forze, lo svenimento, l’accasciarsi e lo strisciare dello psicosoma di una pre-adolescente dicono molto, sono metafore, non verbali, da leggere come l’espressione di un momento molto critico nello sviluppo psicologico di questa età.